Il periodo trascorso dall’inizio della fase ribassista dei mercati azionari e dei Treasury nel marzo 2022 si è caratterizzato per una combinazione di pessimismo e confusione, con un gran parlare di un’incombente recessione innescata dai rialzi dei tassi della Fed, ma con solidi dati economici che hanno generato uno strano clima di incredulità.
Questo trova riflesso nelle dichiarazioni provenienti dall’economia reale. Venerdì 9 dicembre il CEO di Bank of America Brian Moynihan ha detto alla CNBC: “Quest’anno i consumatori americani stanno spendendo di più rispetto all’anno scorso. In realtà, nella prima settimana di dicembre si è registrato solo un lieve aumento rispetto a novembre, in una percentuale di poco superiore (6% contro 5%). Ma la spesa è ancora robusta e coerente con un’economia in crescita di oltre il 2%.”
Permangono incertezze sulla probabile durata e gravità del previsto rallentamento della crescita e sulle sue ripercussioni sulla politica monetaria. Dal nostro punto di vista, la mancanza di chiarezza è dovuta ai lunghi strascichi della ripresa post-Covid e agli elevati risparmi accumulati grazie alle misure di stimolo, piuttosto che a qualcosa su cui assumere un atteggiamento contrarian.
I dati segnalano inequivocabilmente l’arrivo di un rallentamento, con l’inflazione ancora elevata, continue revisioni al ribasso delle stime sugli utili e i costi di trasporto in caduta libera; persino il prezzo del greggio si è fermato sotto gli 80 dollari al barile, nonostante le continue tensioni geopolitiche.
Non crediamo, tuttavia, che le prospettive di una congiuntura negativa siano già scontate dai mercati azionari. Il rally di ottobre e novembre 2022 si è basato sul presagio di segnali accomodanti provenienti dalla guidance della Fed, secondo cui i tassi di policy continueranno a salire, e su un indebolimento del dollaro. Questi non sono i presupposti per un trend rialzista duraturo, per cui ci aspettiamo che nel 2023 il mercato si mantenga volatile.
La notte è più buia prima dell’alba
Un’altra flessione dei mercati azionari in concomitanza con l’arrivo della recessione e la conferma del tasso terminale della Fed avrà dure conseguenze per l’economia reale. Questo però è il momento in cui gli investitori devono agire e ricostruire le posizioni azionarie orientate alla crescita, soprattutto se, come molti prevedono, la recessione negli Stati Uniti sarà moderata. Inoltre, l’intransigenza dimostrata dalla Fed nel corso di questo ciclo di inasprimento sarà messa alla prova quando arriverà la recessione. Un cambio di rotta della Fed con un’inflazione ancora nettamente superiore al target del 2% – cosa perfettamente possibile – sarà il segnale che gli investitori aspettano per reimpiegare la liquidità in attività finanziarie, siano esse azioni o obbligazioni. In questo scenario non si può escludere un’impennata dei mercati azionari simile a quella del 2020.
Figura 1: Il CPI USA è ancora lontano dal 2%

Fonte: S&P Dow Jones Indices, Robeco
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Inoltre, anche se la Fed dovesse mantenere i nervi saldi, nel 2023 potrebbero manifestarsi altri catalizzatori evidenti. In primo luogo, se la recessione dovesse essere moderata – nel caso del famoso atterraggio morbido – e le proiezioni sugli utili dovessero stabilizzarsi, gli investitori azionari vedrebbero un punto di minimo e inizieranno a riposizionarsi di conseguenza.
In secondo luogo, un eventuale cessate il fuoco, o un più improbabile accordo di pace, nella guerra tra Russia e Ucraina avrebbe al contempo l’effetto di ridurre le spinte inflazionistiche, alleggerire le pressioni sulle banche centrali e stimolare la propensione al rischio. Questo scenario roseo sembra al momento molto inverosimile, ma lo sembrava anche la guerra alla fine del 2021.
In terzo luogo, è probabile che la ripresa della Cina dal Covid acquisti slancio dopo il recente rilassamento delle restrizioni pandemiche. Anche per gli scettici, l’impatto di una ripresa simultanea dei consumi interni, degli investimenti in infrastrutture e della stabilizzazione del mercato immobiliare avrà un effetto molto pronunciato sulla crescita, soprattutto nella regione Asia-Pacifico.
I fondamentali dei mercati emergenti sono più solidi rispetto ai cicli precedenti
Il fattore Cina è uno dei motivi per cui siamo più ottimisti sui mercati emergenti che su quelli sviluppati. Anche se negli ultimi dieci anni i mercati emergenti hanno offerto rendimenti deludenti rispetto agli Stati Uniti, i fondamentali delle economie dell’Asia-Pacifico, dell’America Latina e persino dell’Africa sono oggi più solidi rispetto al 2008-2009, ed è improbabile che il prossimo decennio rispecchi quello appena trascorso.
Alla vigilia di quello che sarà plausibilmente un 2023 difficile e di recessione per gli Stati Uniti e per l’Europa, è probabile che i mercati emergenti si produrranno in una sovraperformance anche a fronte di un rallentamento dell’economia globale, grazie al miglioramento dei fondamentali e al parziale disallineamento della politica monetaria.
Il secondo catalizzatore che vediamo per i mercati emergenti è il picco dell’indice del dollaro che, abbinato alla ripresa tardiva dell’attività in Cina, permetterà alle economie emergenti di crescere più velocemente di quelle sviluppate.
Cosa comporta tutto questo per il posizionamento? Non molto, in realtà. Anche se si trovano a nostro avviso in condizioni migliori, i mercati emergenti risentono ancora del rallentamento globale; inoltre, il ritmo della ripresa in Cina non sarà paragonabile alla crescita frenetica dell’era pre-Covid. Tuttavia, quanto sopra potrebbe significare che la fuga verso la sicurezza offerta dal dollaro si sia già esaurita, offrendo ragioni per smettere di evitare o sottopesare i mercati emergenti.
Per i nostri portafogli azionari globali, queste considerazioni influenzano le nostre posizioni relative nelle società dei mercati sviluppati ed emergenti, e riteniamo che, in termini di protezione del capitale e di anticipazione della ripresa economica globale, un’allocazione oculata in azioni emergenti di alta qualità darà i suoi frutti nel 2023.
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